La donna viveva a pochi chilometri dal confine russo. Da oltre 2 anni e mezzo era stato chiesto d’ evacuare la zona, liberando le case e le masserizie. Quella striscia era costantemente sotto i bombardamenti, mancavano negozi di prima necessità, distanti decine di chilometri. La vita era difficile, quasi impossibile, ma Kateryna era rimasta lì, da sola, con Bublik, il grosso pastore tedesco.
Probabilmente in cuor suo, sperava da un giorno all’altro, di sentire l'annuncio di "Cessate il fuoco". Ma quel 21 marzo 2025, i soldati ucraini erano stati perentori. “Sgomberare. E' troppo pericoloso restare.” Così Kateryna abbandonò tutti: Yuriy, la sua umile casa, Bublik, troppo grande per un bilocale di 40 metriquadri. Con sole due valigie ed uno zaino in spalla, si trovò catapultata, sul primo treno diretto a Sumy. Sua figlia l’avrebbe ospitata. Avrebbero vissuto insieme, ai due nipoti ed il genero, il tempo necessario, per riorganizzare le loro vite.
Durante il viaggio, per ammazzare il tempo, Kateryna navigò in internet (poco per timore di scaricare la batteria d'alimentazione). Ma appena una decina di minuti dopo, spense il cellulare. C'erano troppe cose che la ferivano: quelli che si sentivano in diritto di giudicare l’ Ucraina, dove le radici sovietiche sono state sradicate, benchè timidamente presenti, dove il suo popolo, da 34 anni lavora per la Democrazia.
Si chiedeva, mentre il treno le imponeva l' estremo commiato dall' ultima casa del suo piccolo villaggio: " Perchè persone sconosciute, distanti 3000 -4000 chilometri dalle zone di guerra, criticano il mio popolo andato al fronte a combattere l'invasore? O quello che lotta da civile, da patriota, cercando di vedere una normalità, in un paese in cui, da milletrecento notti, la normalità non c'è?".
La carrozza era al completo. Una donna, con un trench grigio pied de poule, aprì un ruvido pacchetto di biscotti che sapevano di credenza e li offrì ai compagni di viaggio. Tutti accettarono e ringraziarono con un sorriso o un cenno di mano. Nell'inghiottire il boccone, Kateryna pensò alla speranza d'inghiottire anche i brutti pensieri che affollavano la propria vita.
Pensieri di dolore, solchi profondi nell’animo, per i quali non basteranno 3 generazioni per superarli, cancellando le invisibili frontiere del cuore e della mente. Pensieri laceranti come quelli del giovane di Kherson, seduto vicino al finestrino, receptionist d’hotel, che estraendo dalla tasca una foto, indicando il pugno di cenere, disse: “ Era la casa dei miei genitori”.
Nessuno osò chiedergli dove fossero finiti mamma e papà.
Ma l’emozione che attivò quel receptionist, sollevò in risposta ad essa, rabbia e speranza, coraggio e forza.
Un uomo anziano con un buffo Kalpak in testa, ricordò alcuni eroi, suoi amici, i soldati al fronte. Una ragazza, nata a Mariupol' raccontò la storia di tante babuska che difendono la propria terra.
Kateryna rivide notti senza energia elettrica, giornate di compleanno passate in sordina, feste di laurea senza il cappello accademico e la corona d’alloro, nessun brindisi, nessun rinfresco, i matrimoni celebrati in tutta fretta, quelli saltati in aria in un momento, forse per colpa del logorio dei nervi, la tensione, l'affanno d'inventare nella coppia, parole nuove per raccontare i tormenti dell'anima, i funerali veloci, le bandiere che sventolano sulle tombe dei tanti.
Pensieri di rabbia e di forza: i fusti d' acqua accatastati sui balconi, per riserva, in caso di sospensione idrica. La libertà minata e le troppe parole inutili su cui, in Europa, si costruiscono talk, programmi Tv. Le tanti frasi d’effetto, i concetti espressi nelle terre di pace che cozzano con il sentiment e le necessità primarie delle terre in guerra.
Natalka, con la piccola Oleksandra, rimasta sino a quel momento in silenzio, con voce melodiosa, quasi inadatta in quel conflitto, aggiunse: "E’ un po’ come sentirsi miracolati ogni giorno, quando si viene a conoscenza che il nipote di quella del 9 piano è morto, che il figlio del tuo amico è scoppiato in aria, che quello del condominio a fianco, non da sue notizie da 2 mesi."
Erano tutti d'accordo in quel viaggio di rientro, che Kateryna ricorderà per sempre, come la sua diaspora.
Il treno stava per arrivare in stazione. Appena in tempo per rispettare il coprifuoco.
La donna guardò tutti quei volti attraversati da una moderata quiete verso il domani, da una forza immensa di sano orgoglio.
"L'occidente deve sapere, non deve giudicare" disse una voce dal fondo della carrozza, come se ci fosse un mentalist a distanza.
Nello scendere qualcuno si abbracciò.
Anche questo fa la guerra. Prestare piccoli aiuti, lasciando davanti alla porta un sacchetto di bottiglie di plastica che la babuska raccoglierà per arrotondare la misera pensione, spedire ai volontari qualche tuta termica per proteggersi dal freddo, dare parole di conforto, regalare un sorriso, non giudicare. Imparare a chiedere, a pregare.
Kateryna allungò ad un giovane ferito al volto, con le dita gonfie dal freddo, un pacchettino preso dal suo zaino. Conteneva un paio di guanti di lana ed una sciarpa. Il giovane soldato li prese ringraziando.
Erano di Yuriy. A lui non sarebbero più serviti. La foto lo ritraeva, sorridente, tre settimane prima, nel giardino mentre sistemava un traliccio. Un secondo dopo, un drone russo fece esplodere un edificio vicino e la deflagrazione sparse pezzi di lamiera ovunque. Un frammento raggiunse quel giardino, spezzando la spina dorsale dell'uomo.
Avevano camminato insieme lui e Kateryna, per un po' di tempo. Lei era stata il suo bastone, lui un'ancora a cui attaccarsi, una piccola goletta buttata come per mano di un artista impazzito, in un quadro tempestoso, in cui nessuno si sarebbe mai salvato.
E questo l'Occidente non l'avrebbe mai saputo.
Uno squillo del cellulare indicò una notifica: possibile invasione di droni nemici. Un secondo squillo portò un sms. Era di Mykola: "Ci faremo vivi noi. Benvenuta." Kateryna rispose: " Sono pronta. Attendo le coordinate".
Soddisfatta della decisione, la donna pensò: " I difensori di chi violenta la democrazia, dovrebbero sapere quanto coraggio accompagna il dolore, qui. Un giorno, forse, lo racconterò".
Wilma Zanelli